LA LEGGE PENALE MILITARE NON PUO’ IMPORRE INUTILI SACRIFICI DI VITE UMANE
La luce svogliatamente dirada le tenebre del 12 settembre 1943. Da alcuni giorni, rotte le acque, sei venuto alla luce. Ora, succhi avidamente il latte materno, mentre dormi più saporosamente di un ghiro, come solo i neonati sanno farlo. Tua madre, una ragazzina, sola, indifesa trema come una canna. Trepidante ti stringe tra le sue braccia. Suo marito, giovanissimo è al fronte, a procurare sofferenze, lutti e devastazioni, come decretano quelli che contano, a raccattare malattie e privazioni per sé e la sua famiglia.
Il rombo di aerei fende l’aria. Segue un fruscio sibilante, che inquieta. Dall’alto, infatti, cadono bombe che colpiscono le casermette ed il porto. Divampano lingue di fuoco. Si odono, boati, scoppi. Schegge schizzano rovinosamente dappertutto. Frastuono assordante, trema la terra, ballano le case. La gente, rintanata nei rifugi e camminamenti, sobbalza ad ogni deflagrazione.
In tante case, le donne impastano il pane, il forno del vicinato è già caldo e fumigante per accoglierlo nelle sue roventi fauci. I contadini, aggiogata la mula, stivano il carretto di tini e cassette per raggiungere il piccolo podere,mentre il cane abbaia alla luna. Occorre vendemmiare, l’uva non può aspettare, è necessario darsi da fare, anche se la paura non indietreggia minimamente.
Nel poderoso castello di Barletta sede del comando della guarnigione militare, l’animo di un uomo è in fibrillazione. Passeggia nervosamente da un capo all’altro dell’ufficio. Si stropiccia le mani. I suoi occhi sono stanchi. Nelle sue mani è il destino di un territorio, la vita di migliaia di persone. “Che fare? Dichiarare la resa o combattere contro i tedeschi, improvvisamente nemici?” si chiede Francesco Grasso. Risposte contrastanti. Infame silenzio. Nessun aiuto. Dai comandi militari.
Si appella alla coscienza. Immediata, la risposta: “Francesco, onorevolmente hai contrastato l’avanzata dei nemici. Ora, sono soverchianti per numeri, mezzi ed armamenti. Occorre piegarsi! se non vuoi che un fiume di sangue dilaghi per la città.”
“E… resa sia!” Esclama, il soldato. Mite, responsabile, che si sente il patriarca di un’intera collettività. Due energumeni senza ritegno gli saltano addosso, facendogli volare gli occhiali che Maria, la sua cara figliuola affettuosamente gli aveva donato.
Tradotto in manette a Bosco Incoronata. Giorni di isolamento. Stringente, l’interrogatorio. Gli si fa carico di aver maltrattato prigionieri tedeschi, usato proiettili ad espansione. Nega energicamente gli addebiti. Fucilazione in arrivo!
Lui, uno dei seicentomila militari, rastrellati in Italia dopo l’armistizio. In prigione, come un malfattore. Solo due gallette dopo quattro giorni. Il soldato austriaco, che lo sorveglia, mosso a compassione, gli offre un grappolo di uva, del pane e qualche sigaretta.
Scaraventato in un carro bestiame…che viene spalancato in aperta campagna per i bisogni corporali. L’ambiente è asfissiante. La fame sempre più assillante. Pesa come un macigno l’assenza delle persone care. Destinazione, un lager della Polonia.
Arrivo a Hammerstein. Luride capanne, freddo insistente, cibo insufficiente. Mesi, atroci. Poi, trasferimento a Norimberga, altre fatiscenti baracche. Interrogatori, accuse, disagi di ogni genere, minacce di fucilazione.
Il cibo? Brodaglia di rape. Pane ammuffito, qualche patata. Si rovista nella spazzatura, come i cani. L’umidità trafigge le ossa. Neve, vento, nebbia e pioggia si fanno compagnia o si danno il cambio. Si dorme accartocciati su pagliericci di trucioli.
Appelli, adunate estenuanti, controlli ripetuti, umiliazioni. Avvilimento, il corpo deperisce a vista d’occhio. Quando non regge, si provvede con decotti, infusi e qualche compressa di aspirina. O si finisce su un carretto che, spinto a mano, porta ad un improvvisato cimitero.
Ma chi è Francesco Grasso? Come reagisce? Un soldato. Una scelta quasi obbligata per lui come per tanta gente del Sud. Ieri e… ancor oggi! È originario di Colle Sannita, un paese in provincia di Benevento, a due passi da Casalduni e Castelpagano, località che evocano la ferocia inaudita e gli stupri sulla popolazione del generale Cialdini.
Ama la sua terra ed intende difenderla… se viene aggredita. Lui la guerra l’ha conosciuta, e si è anche distinto. Ha perso un fratello in combattimento, ed un altro è rimasto penalizzato per sempre. In casa sua, si impara a salvare la gente dalle malattie e dalla morte. Suo padre, infatti, è medico.
È una tortura per lui, non sapere nulla dei suoi, né comunicare la sorte toccatagli. Si sente depresso. Solo dopo un anno di tormenti gli arriveranno notizie dei cari, e loro potranno venire a conoscenza che è vivo e li ama più di prima.
Affamato, ammalato, stremato, vilipeso. Prova un forte senso di ribellione verso uomini e cose. Vorrebbe esplodere in urla che deve contenere, per alto senso di responsabilità. È scettico sul futuro. Lo spiccato spirito critico lo porta ad avere i piedi per terra.
Arrivano cibo e denaro dalle famiglie. Molti gozzovigliano e non si accorgono che lui, povero, continua a masticare a vuoto ed ingoiare saliva. Per educazione e sensibilità, detesta l’egoismo, prova sdegno per profittatori e sfruttatori, gli ripugna la borsa nera.
Si commuove tutte le volte che compagni di sventura gli manifestano segni del loro cuore. Encomiabile, l’altruismo della popolazione di Francavilla a Mare e della Polonia, commendevole l’abnegazione del medico serbo che con grande professionalità gli cura l’infezione all’orecchio e lo colma di cibo ed attenzioni.
Spiccato è il senso della propria dignità. Si sente avvilito per il numero di matricola 956 appeso al collo. Colpa? La fedeltà ad un ideale. Rifiuta seccamente l’invito di entrare nelle file dell’esercito tedesco o di arruolarsi nell’esercito fascista repubblicano.
Dei colleghi aderiscono alla repubblica fascista. Parole di esecrazione si rovesciano su di loro. L’indignazione è fremente, vibrano nell’aria proteste ad alta voce che si trasformano in un tumulto. Non profferisce parole di condanna per chi cambia casacca. “Chi sono io per giudicarli?” sussurra.
Grande compostezza. Si sente solo. Basta un nonnulla per provocare escandescenze. Mostra risentimento verso chi si accanisce verso i perdenti. Congiuntamente, prova pena per le ragazze tedesche che concedono favori in cambio di cibo e riconosce il valore del nemico che combatte strenuamente. Un sincero sentimento religioso lo assiste durante l’intera prigionia.
La guerra finisce, e Francesco, ritornato finalmente in Italia può riabbracciare la moglie ed i figli. Non si aspetta pubbliche ovazioni, applausi, encomi, parate militari. Semplicemente rispetto. Invece, un’amara sorpresa lo attende. Incomprensione ed una diffusa ingratitudine. Per giunta, lo Stato, che nel momento del coraggio si era mostrato pavido, osa sottoporlo a processo.
A fare giustizia provvede il Pubblico Ministero, per il quale “la legge penale militare non può imporre inutili sacrifici di vite umane… E l’ufficiale Grasso non ha violato né la legge dell’onore né quella penale.” A distanza di molti anni, arrivano anche le medaglie, al valore civile e militare.
Schivo e riservato per natura e cultura, Francesco non farà più cenno alle vicende del campo di concentramento. Il nipote, Roberto Tarantino, invece, cura “956. Diario della resistenza di un soldato”, note appuntate durante la prigionia negli spazi di un messale.
Si fa breccia nella sua mente l’idea del Mito della Caverna di Platone: appurata la verità, va rivelata, mettendo da parte ogni altra considerazione. In più, in qualità di docente, è fermamente convinto che le giovani generazioni hanno il diritto di sapere la verità, per contrastare nel futuro ogni velleità autoritaria, sempre in agguato.
Domenico DALBA
Colonnello Francesco GRASSO
comandante del Presidio Militare di Barletta
…Alle 9.00 del 12 settembre i soldati nazisti presero il castello, sede del presidio militare italiano: il colonnello Grasso (poi deportato in un campo di concentramento) e i suoi soldati furono costretti ad arrendersi.
…Un colpo di carro armato colpì il Palazzo delle Poste, con l’obiettivo di neutralizzare ogni resistenza, si diressero anche verso l’ufficio dei vigili urbani. I tedeschi irruppero nel palazzo e trascinarono fuori, con le mani alzate, tutti i prigionieri, condotti vicino al muro del lato sud dell’edificio postale di piazza Caduti, essi vennero barbaramente trucidati.
I loro nomi: Antonio Falconetti, Pasquale Del Re, Luigi Iurilli, Michele Spera, Gioacchino Torre, Nicola Cassatella, Luigi Gallo, Pasquale Guaglione, Vincenzo Paolillo, Francesco Gazia, Savino Monteverde, Michele Forte.
Solo Falconetti F. Paolo si salvò, ferito e coperto dagli altri corpi: verrà salvato dopo ore da Addolorata Sardella.