PER NON DIMENTICARE
San Ferdinando di Puglia (BT) 4 febbraio 2019 – Presentazione del libro “Stammlager l’incubo della memoria”, di Vitoronzo Pastore – Suma Editore – presso l’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore “Michele Dell’Aquila.
Onori ai 19 Internati Militari sanferdinandesi deceduti per mani nazifasciste
In occasione è stata allestita una mostra
“La corrispondenza dai Campi di concentramento”
Hanno aderito Pina CATINO Presidente Club per l’UNESCO di Bisceglie e diversi Soci, il Prof. Luigi PALMIOTTI Presidente del Museo Etnografico “F. Prelorenzo” di Bisceglie, il Poeta Salvatore MEMEO, presenti nei tre tomi con interventi diversi; il Prof. Nicola LOVECCHIO;
le classi V dell’Istituto Dell’Aquila che hanno interagito e letto i sonetti di
Salvatore Memeo: Auschwitz-Birkenau
Condotto dal Dirigente scolastico Prof. Ruggiero ISERNIA
L’Autore ha riferito
Per Campo di concentramento (o Campo di internamento) si intende la struttura carceraria all’aperto per la detenzione di civili e o militari.
Il Campo di concentramento era formato da file di baracche o di container disposte ordinatamente, contenenti i dormitori, i refettori, gli uffici e le altre strutture necessarie, circondati da reticolati di filo spinato o da altri tipi di barriere. Il campo è sorvegliato da ronde di guardie armate lungo tutto il perimetro.
I metodi e le finalità di sistematica eliminazione dei prigionieri, attuati in queste strutture nel XX secolo, soprattutto nella Germania Nazista e nell’Unione Sovietica, ha fatto sí che nel linguaggio comune Campo di concentramento sia spesso assimilato a campo di sterminio, che è invece un sottotipo anomalo.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, fra il 1940 e il 1945, la Germania nazista fece uso su vasta scala dei Campi di concentramento (Konzentrationslager o KZ) che furono istituiti già nel 1933 accanto ai campi di rieducazione al lavoro, destinati in particolare a giovani operai recalcitranti di fronte alla disciplina di regime.
I Campi di concentramento rappresentarono un elemento cardine del potere nazionalsocialista in quanto ne costituivano il principale strumento di repressione e di terrore. Essi furono utilizzati per detenere Ebrei, Testimoni di Geova, zingari, uomini e donne omosessuali, prigionieri di guerra, in particolare russi e polacchi, e dissidenti politici, per sterminarli sistematicamente mediante l’utilizzo del gas.
Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierten – I.M.I.) era il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all’Armistizio firmato il 3 settembre 1943 a Cassabile (Siracusa) dal Governo Badoglio con gli Anglo-americani e annunciato alle ore 19,42 dell’8 settembre ai microfoni dell’E.I.A.R. (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche). Il primo annuncio in lingua inglese avvenne qualche minuto prima tramite Radio Algeri.
Dopo il disarmo, soldati e ufficiali italiani vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle fila dell’esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il dieci per cento accettò l’arruolamento. Gli altri vennero considerati internati militari e in seguito cambiarono status divenendo lavoratori civili: come tali furono obbligati al lavoro forzato e sottratti alla possibilità di controllo della Croce Rossa Internazionale e alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929, sottoscritta anche dalla Germania, che prescriveva un trattamento umanitario.
La RSI (Repubblica Sociale Italiana) si legò a doppio filo con il Terzo Reich, mentre l’atteggiamento tedesco nei confronti degli internati si mantenne rigido; ben pochi miglioramenti vennero apportati alle condizioni di vita di questi soldati. Solo nell’estate del 1944, con l’incontro in Germania tra Hitler e Mussolini, il Duce italiano riuscì ad ottenere dal Führer la conversione degli IMI in “lavoratori civili”, mitigandone, almeno sulla carta, le condizioni di vita. Nella realtà questo status li sottoponeva comunque ai lavori pesanti senza godere di alcuna tutela a livello internazionale e senza la possibilità di rientrare in Italia.
Fra gli IMI si articolò ben presto una rete di resistenza attiva e passiva contro il nazismo e il fascismo: furono organizzate cellule e perfino delle radio clandestine. Nei primi giorni della loro segregazione, i soldati italiani vennero costretti a collaborare, ad aderire alle proposte tedesche di continuare la guerra al loro fianco e sotto il loro comando contro gli alleati Anglo-americani. Rifiutandosi, i prigionieri subirono colpi brutali di calcio di fucile per il raduno in vista della deportazione, colpi di arma da fuoco contro chi tentò di fuggire o quanto solo di attingere acqua per calmare l’aspra sete; vennero stipati in carri-bestiame, ammassati in 50 e oltre per carro, restarono senza assistenza per giorni e notti, per l’intero tragitto, senza poter provvedere ai bisogni corporali.
I militari italiani fatti prigionieri dai Tedeschi sul territorio italiano vennero portati per l’internamento in Germania e nei territori occupati, facendo scalo nelle stazioni ferroviarie di Trento, Bolzano, Treviso, Venezia e intermedie. A destinazione i soldati vennero immatricolati; fu consegnata loro la piastrina, per essere segregati in Stammlager di prigionia, recintati da due o più ordini di filo spinato, guardati a vista da sentinelle su torrette munite di mitraglia. Insulti carichi d’odio e di brutalità furono dettati dall’odio razziale e dal pregiudizio sociale contro gli “uomini del sud”, falsi e bugiardi; le molestie furono messe in atto per pura avversione antitaliana. Col fine primario di far bottino e con quello secondario di umiliare con arrogante oppressione, le perquisizioni si susseguirono a ritmo incessante. Le somme di denaro vennero confiscate, ovviamente senza contropartite di ricevute. I rapaci requisitori si impossessavano di qualsiasi oggetto, senza preavviso, di giorno, di notte, per tutto il tempo della prigionia; gli oggetti di valore furono i primi a prendere il volo e alle legittime rimostranze i Tedeschi reagivano con feroci percosse, insulti e umiliazioni ingiustificate.
Nei vari trasferimenti, dalle stazioni terminali agli Stalag di prigionia, i chilometri percorsi a piedi si perdono nella memoria. I Tedeschi sfogarono la loro fobia nel considerare i prigionieri “sottouomini”, esseri inferiori alla loro razza eletta. Vi furono momenti e occasioni in cui vennero caricati sugli autocarri giungere prima ai depositi militari dove vennero costretti al carico o allo scarico delle granate o delle casse di munizioni. Quanto ai viveri, nonostante le 10-12 ore giornaliere di lavoro, venne concesso di mangiare una sola volta al giorno e la sera al rientro negli Stalag c’erano brodaglia di rape e un tozzo di pane nero in cattivo stato e miserabile companatico. Era impossibile muoversi! Dallo Stalag al cantiere di lavoro e viceversa, si era sempre scortati da aguzzini, sentinelle armate. Al calar del sole lo Stalag veniva chiuso. Non poche erano le difficoltà in caso di allarmi aerei (piuttosto frequenti). Ci voleva tempo a riaprire tutto e a raggiungere i rifugi, semplici paraschegge scavate a livello di terreno, dai quali si contemplavano i razzi illuminanti, le traiettorie dei proiettili traccianti e, ovviamente contare gli innumerevoli bombardieri anglo-americani; non pochi prigionieri perirono sotto le bombe alleate.
Nel corso dei primi quattro mesi, per i più fortunati ci furono soltanto due disinfestazioni degne di questo nome, un paio di docce, e in seguito fino alla liberazione, i pidocchi si moltiplicavano a dismisura. I prigionieri furono sempre tenuti in zone cosiddette ad alto rischio, adibite a lavori in stabilimenti di produzione bellica o d’interesse militare, frequentemente e incessantemente sottoposti alle incursioni aeree degli Alleati.
Dopo il settembre del 1944, allorché ci fu il passaggio obbligato da militari a lavoratori civili, nonostante le tutele della Croce Rossa loro spettanti, in molti casi la razione alimentare non migliorò. Le ruberie degli addetti tedeschi decurtarono ulteriormente le provviste. I pacchi spediti dalla C.R.I., dalle Associazioni Umanitarie, dalle famiglie non vennero consegnati: di essi se ne appropriarono i Tedeschi addetti alla sorveglianza e per sfamare il loro appetito distribuirono ai malcapitati modulistiche prestampate per far spedire sempre più pacchi. I Tedeschi abusarono, ricorrendo spesso a torto, di punizioni collettive; si incrudelirono più volte contro prigionieri, vietando la scarsa razione di cibo con pretestuosi motivi disciplinari scaturiti da cervellotiche e arbitrarie disposizioni. Per tutto il periodo della prigionia, quasi tutti indossarono la vecchia divisa militare che portavano nel momento della cattura. Mai una tenuta da lavoro; se qualcuno possedeva la biancheria di ricambio veniva confiscata. A volte si requisì la seconda coperta, col pretesto che si dovevano fornire innanzi tutto le truppe tedesche impegnate sui diversi fronti.
Non funzionavano ambulatori medici e né infermerie per assistenza sanitaria. I malati e i feriti vennero costretti, accompagnati sotto scorta armata, a lunghi percorsi a piedi per raggiungere i posti di intervento, situati nei luoghi più disperati, nei lager-lazarett, riservati ai prigionieri di ogni nazionalità; in molti vi entrarono e non ne uscirono più. Se si moriva si finiva nelle fosse comuni, se si sopravviveva venivano utilizzati dalla Firmen, affamata di braccia per la produzione bellica. Assente l’assistenza religiosa; i nostri prigionieri venivano insultati: Papist du schweine (porco papista). Nessuna distrazione di carattere ricreativo-intellettuale, qualche proiezione cinematografica, film di propaganda antinglesi. Gli unici fogli stampati consentiti furono “Voce della Patria” e il “Camerata” di marca fascista ad opera e cura dei collaborazionisti della R. S. I. Nessuno sport; squallore, desolazione e fame erano tali da non consentire evasione alcuna, anche a causa dell’assoluta mancanza di condizioni per fruirne.
Per tutto il lavoro prestato a favore delle varie imprese (Firmen) era prevista la retribuzione lorda di 10 marchi al giorno, da cui detrarre due terzi per previdenza, per assistenza, per cassa mutua sanitaria, per vitto e alloggio. Alla fine della prigionia, per quasi tutti, non fu operata nessuna restituzione-rimborso delle spettanze.
I Tedeschi non solo impiegarono i prigionieri a spalar le macerie, a sgomberare le strade, a salvare il salvabile, a riparare le traverse ferroviarie, a ripristinare le strade e i ponti, a riattare le industrie, ma obbligarono al lavoro coatto, senza badare alle attitudini e né al grado; li costrinsero a prestare la loro opera nelle fabbriche d’armi e negli stabilimenti, nelle miniere, nei cantieri, sulle strade ferrate, nelle fattorie. Il tutto senza assistenza alcuna, sotto il ferreo controllo dei “Kapo” oppressivi, incattiviti e resi perfidi dall’odio razziale nei confronti dei “makaroni”, inferiori per razza e stile.
Nei lunghi pomeriggi di sole si consentiva di prestare servizio “volontario” presso le fattorie dei dintorni, per rimediare cibo in più, per placare la grande fame. I Kapo chiudevano un occhio, riscuotendo il “pizzu” per integrare la penuria familiare di rifornimenti annonari. I responsabili della cucina degli Stalags e degli Arbeitskommando, viste le “regalie” che i contadini concedevano ai prigionieri, sottraevano, dalle razioni assegnate dalle Firmen, vistosi quantitativi di viveri che la domenica gli aguzzini vendevano ai privati per arrotondare le entrate e lucrare congrui introiti. Perenne fu la vergogna delle crudeltà commesse dai Kapo, perfidi autori di vessazioni, di umiliazioni, di offese e di percosse generate dall’inestinguibile odio razziale nei confronti degli Italiani, ritenuti di razza inferiore, oltre che traditori badogliani.
Le legittime proteste non furono mai prese in considerazione. Anzi, costituirono pretesto per infierire, con brutale repressione e ripetute percosse, sugli sventurati che osarono reclamare per lo scarso cibo, per la qualità del vitto, per l’onerosità del lavoro, per il sudiciume, per la scarsità e a volte assenza di sapone, di acqua potabile o per l’assenza di qualsiasi assistenza. Non si poteva fare nessun tipo di richiesta. La resistenza nei lager è costata il sacrificio di circa 90.000 persone. Di queste, sebbene non si conosca il numero esatto, circa 60.000 erano Internati Militari Italiani.
In stretta osservanza all’ideologia razziale nazista, non appena i Nazionalsocialisti e Hitler presero il potere nel 1933, comparvero in Germania i primi Campi di concentramento e fu subito evidente che alla loro istituzione presiedeva la politica dello sterminio scientifico. Il primo Konzentrationslager (lager in tedesco significa magazzino, stamm tensione) fu realizzato a Dachau, situato a 15 km a nord-ovest di Monaco di Baviera e inaugurato il 22 marzo 1933. Col pretesto di “rieducare i Tedeschi antinazisti”, furono internati migliaia di comunisti, socialdemocratici, Ebrei, protestanti e obiettori di coscienza. Le deportazioni che in questa prima fase furono fatte a discapito degli Ebrei non ebbero però, carattere antisemita, ma motivi politici. Il sistema concentrazionario nazista non nacque con lo scopo di perseguitare gli Ebrei, ma con l’obiettivo di recludere gli oppositori politici. Ben presto l’organizzazione dei Campi di concentramento assunse una tale ampiezza che Hitler affidò la custodia alle SS, la milizia del regime, con a capo Heinrich Himmler, coadiuvato dall’ispettore Pohl.
Fra le esperienze attuate nei Campi di concentramento, dove la tortura era di norma, venne praticata anche l’eutanasia come mezzo di “soppressione di vite indegne di essere vissute”, primo passo verso quella “razionalizzazione dello sterminio” che culminò con le camere a gas e i forni crematori.
Infine, per le necessità della loro economia di guerra, i nazisti concepirono i Campi di concentramento come enorme riserva di lavoro servile, non pagato e sempre rinnovabile.
Dopo l’inaugurazione di Dachau, altri campi vennero costruiti tra il 1936 e il 1939:
– Oranienburg-Sachsenhausen, costruito nei pressi di Berlino e aperto nel 1933, venne ricavato da una fabbrica abbandonata e nacque come campo di lavoro per prigionieri politici. Successivamente vennero internati qui anche criminali e asociali, mentre gli ebrei vennero deportati a partire dal 1936 per poi essere tutti trasferiti ad Auschwitz nel 1942;
– Buchenwald, nei pressi di Weimar, inaugurato nel 1937;
– Mauthausen, in Austria, costruito nel 1938 in seguito all’annessione dell’Austria da parte del Terzo Reich;
– Flossenburg, presso il confine cecoslovacco nel 1939;
– Ravensbruck, realizzata 100 km a nord di Berlino per l’internamento di sole donne. Operativo dal 18 maggio 1939, fu inizialmente utilizzato per prigioniere politiche tedesche, comuniste e socialdemocratiche.
Allo scoppio della guerra, con l’invasione della Polonia da parte della Germania il 3 settembre 1939, si procedette alla costruzione di altri campi:
– Neuengamme, costruito nel 1940 nei pressi di Amburgo, fu principalmente adibito all’internamento di detenuti di origine scandinava;
– Gross-Rosen, costruito nel 1941 in Bassa Slesia;
– Auschwitz, costruito nel 1940 nei pressi di Cracovia, cuore di un triplice complesso comprensivo di Auschwitz II-Birkenau, che dal 1942 divenne campo di sterminio immediato dove vennero deportati tutti gli Ebrei per lo sterminio di massa con le camere a gas, e Auschwitz III-Monowitz, costruito nel 1942 e bacino da cui le SS attingevano per reperire manodopera;
– Majdanek, Chelmo, Belzec, Sobibor e Treblinka, tutti costruiti sul suolo polacco tra il 1941 e il 1942 e distrutti dai Tedeschi stessi alla fine del 1944. Nello specifico, sia Majdanek sia Chelmo divennero, già nel 1942, campi di sterminio immediato;
– Bergen-Belsen, costruito vicino ad Amburgo nel 1943, originariamente nato come campo di concentramento per Ebrei e successivamente utilizzato come centro di raccolta per i deportati inabili al lavoro, qui trasferiti da altri campi;
– Dora Mittelbau, costruito nel centro della Germania nel 1943, fu sede di un complesso di fabbriche sotterranee di armamenti che, a partire dal 1944, divenne autonomo da Buchenwald.
Altri campi furono costruiti in Boemia (Terezin); in Alsazia (Natzwiller, Strithof), a Riga e a Kaunas nei Paesi Baltici.
I campi, che sorsero in luoghi disabitati e spesso malsani, in genere erano composti da baracche di legno larghe da sette a dieci metri e lunghe cinquanta, costruite dagli stessi internati. Il campo era chiuso da filo spinato, nel quale era immessa corrente elettrica ad alta tensione; torrette di vigilanza sorsero, munite di mitragliatrici, nei punti nevralgici del campo. Al centro, un grande spiazzo servì all’appello mattutino. Ogni campo ebbe un ufficio di comando, una sezione politica, i servizi logistici, l’infermeria e la prigione. Per le donne internate, il comando fu riservato ai reparti femminili delle SS. Il governo, in sottordine, fu affidato a elementi scelti fra gli stessi internati, i cosiddetti Kapo, che contagiati dalla violenza e dall’odio si rivelavarono non meno feroci dei loro primi persecutori. A capo di questa organizzazione subordinata stava il Decano, che rispondeva di tutti i detenuti del campo davanti alle SS del comando.
Sulla casacca di ogni prigioniero fu cucito un triangolo di stoffa il cui colore identificava la categoria: rosso per i detenuti politici, verde per i criminali, violetto per gli obiettori di coscienza, nero per gli asociali, grigio, e poi nero, per gli zingari, rosa per gli omosessuali e giallo per gli ebrei con sovrapposto un altro triangolo rovesciato a formare la stella di Davide. Tutti poi furono contrassegnati da un numero di identificazione.
Punizioni durissime e cibo estremamente scarso e spesso avariato mietevano vittime e riducevano anche i più forti a scheletri viventi. A scadenze mensili il comando del campo procedeva ad eliminare quanti non erano più abili al lavoro, destinandoli alle camere a gas. Tentativi di fuga furono stroncati con massacri.
Degli otto milioni circa di assassinati, sei milioni furono Ebrei, accompagnati da una foltissima schiera di prigionieri russi, di zingari e di quanti la malattia e i maltrattamenti avevano reso inabili al lavoro.
La liberazione degli Stammlager
La liberazione degli Stalag e degli Arbeitskommando avvenne tramite l’Esercito Russo e l’Esercito Alleato. Dopo la liberazione degli Stalag e dei campi di lavoro, i prigionieri di diverse nazionalità ebbero trattamenti diversi per il rilascio definitivo. Gli internati inglesi e del Commomwealth, liberati dall’Esercito Inglese vennero, dopo veloci identificazioni, rifocillati e disinfestati, furono immediatamente rimpatriati nei loro rispettivi Paesi, seguiti da coloro che, per bisogno, furono ricoverati negli Ospedali Militari da Campo.
Diverso fu il trattamento riservato agli Italiani; dopo l’assistenza e interventi umanitari parecchi vennero trattenuti per diversi mesi; i ritardi furono dovuti alle identificazioni e alle autorizzazioni del Regio Esercito Italiano Commissione Rimpatrio.
I prigionieri liberati dai Russi ebbero il peggior trattamento; ufficiali e militari di truppa furono trattenuti sul territorio di occupazione, altri finirono per continuare la loro odissea nei campi di prigionia sul territorio sovietico di cui si contò un elevato numero di morti.
Era doveroso e utile il ritardo? per molti no! per altri sí. Fu una forma di inchieste finalizzate a chiedere giustizia per i crimini commessi dai nazifascisti durante i lunghi mesi di prigionia, raccolte tra maggio e agosto 1945 nei lager di Gross Hesepe, di Fullen di Versen e altri, trasformati in Campi di Raccolta Italiani. Furono gli stessi Italiani ad invocare “tali testimonianze” per dimostrare al mondo il contributo offerto dai prigionieri di guerra in Germania alla resistenza contro il nazi-fascismo e per l’azione contro i responsabili di misfatti e crimini.
Gli ex internati vennero a trovarsi di fronte ad una vera e propria commissione inquirente che sfruttò le circostanze che nei campi di raccolta, quello di Fullen in particolare, giunsero militari da diverse zone, ciascuno con la propria esperienza da raccontare, sia come parte lesa sia come semplice testimone.
Le direttrici degli esperimenti nei lager del Prof. Nicola LOVECCHIO
- Sopravvivenza in condizioni estreme
- Studi sui gemelli
- Sterilizzazione, Malattie infettive
- Tossicità e immunizzazione
- Studi sui tessuti
La scienza nazista nei lager è stata percepita dal pubblico come pseudoscienza. La nozione di pseudoscienza ha un’accezione negativa. La storia dei lager è un esempio di come il rapporto tra teoria ed esperimento sida inizialmente nell’ordine ipotetico. Quindi la pseudoscienza, in quando ipotesi senza fondamento ha un ruolo positivo nell’elaborazione dell’ipotesi stessa che potrà essere successivamente fondata.
Dopo le direttrici conclude, che la scienza nazista non era pseudoscienza perché alcune ipotesi sono state poi fondate, confermando l’intento auristico dei vari studi. La consideriamo tale con un giudizio di valore (le modalità violente della sperimentazione). Questo, al massimo, ci fa capite come in assenza di una politica corretta la scienza disumanizza l’umano e questa disumanizzazione consiste nel mettere da parte il soggetto ed il suo sistema di valori.