“Geografie fragili. Sulle narrative di confine”
a cura di Dalila Bellomo Studente corso di laurea DAMS, Università del Salento
“Il dovere della geografia è quello di fornire visioni che sappiano guidare il territorio verso un momento di incontro tra culture: la geografia dev’essere posta al servizio di uno sviluppo sostenibile”. Con questa premessa del professor Fabio Pollice (Università del Salento), il 3 aprile 2019 presso il Cinelab “Giuseppe Bertolucci” di Lecce, si è dato il via a un pomeriggio dedicato alla riflessione sulle “geografie fragili”, ossia quelle configurazioni territoriali sempre più fluide e instabili, in cui il concetto di confine è messo in discussione oltre i propri caratteri politico-normativi. L’evento è stato promosso e organizzato dal Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo, da Apulia Film Commission, dalla Scuola di Placetelling e dal Cineclub Universitario in anticipazione della terza edizione della Notte Europea della Geografia, in programma per la serata/nottata del 5 aprile 2019.
Mappa del programma III Edizione della Notte Europea della Geografia
A introdurre l’evento il presidente dell’Associazione dei Geografi Italiani, Andrea Riggio, che ha offerto una visione d’insieme della Notte della Geografia nel suo terzo anno: una costellazione di oltre 100 eventi, conferenze e dibattiti, laboratori didattici, ragionamenti geopolitici e d’attualità geografica che per la prima volta hanno superato i confini europei. Tra le iniziative, attività come passeggiate urbane, escursioni in bici, apertura di musei e laboratori, nella convinzione dell’importanza di riflettere sul ruolo pubblico della geografia e diffondere una solida cultura del territorio volta alla formazione del cittadino. Su questo punto l’intervento del professor Fabio Pollice, ovvero sul tema duplice di promozione del territorio (rapporto cultura-turismo) e di formazione e sensibilizzazione del cittadino che abita quel territorio. Essenziale è riconoscere il potere performante che l’immaginario è in grado di acquisire nei confronti della realtà: uomini e donne di tutte le età ogni giorno costruiscono le proprie complesse geografie mobili, spinti da aspirazioni o necessità, attratti dalle pulsioni di immaginari potenti. Da questo deriva l’importanza di porre la geografia al servizio di uno sviluppo sostenibile. Il professore geografo dell’Università del Salento, nonché direttore della Scuola di Placetelling, ha riflettuto sul concetto di “confine”: il confine non da intendersi come separazione, bensì come incontro tra culture, come dialogo tra diversi. Un dialogo autentico, volto alla scoperta reciproca e alla condivisione. La geografia deve essere in grado di fornire visioni che possano guidare un territorio verso questo incontro e verso l’interazione culturale; visioni che sappiano orientare lo sviluppo territoriale e riflettere allo stesso modo su rapporti di tipo locale-globale.
Riflettere sulle migrazioni, tema sempre e da sempre attuale, ci porta a una determinante presa di consapevolezza: siamo cittadini di un mondo in costante movimento. Se non adesso, un tempo anche noi siamo stati parte di quella moltitudine apparentemente indistinta di girovaghi e viandanti del globo. Ricorrere a espedienti narrativi per parlare con forza del tema delle migrazioni e portare sotto l’attenzione collettiva considerazioni su noi stessi, su chi siamo oggi e su chi eravamo ieri, su quella cultura che definiamo “nostra” e che su terreno urbano si interfaccia quotidianamente con quella dell’“altro”, è essenziale per comprendere quanto ciò che è “nostro” sia in realtà frutto di un processo incessante di interscambio, di trasformazione ed evoluzione.
Poeti e narratori di tutto il mondo si sono occupati del complesso fenomeno socio-spaziale della migrazione: nel suo intervento la professoressa Beatrice Stasi ha parlato del tema della migrazione nella poesia di Giuseppe Ungaretti. Ungaretti, noto principalmente come poeta della guerra, riceve meno considerazione come “poeta migrante”. Autore consapevole della «frattura» identitaria nata dalla coscienza del luogo perduto, egli individua il problema di fondo della questione del girovago, ovvero quello della definizione del sé: la mancanza di senso di appartenenza si traduce in un’assenza di identità. Le esistenze individuali si disperdono nelle possibilità della partenza, della fuga, del viaggio verso l’ignoto. La crisi identitaria che ne deriva può condurre, in alcuni casi, alla ricerca della morte – come succede a un amico dello stesso Ungaretti, Mohammed Sceab, morto suicida a Parigi, a cui il poeta dedica il componimento “In memoria”. A due anni di distanza, nella poesia intitolata “Girovago”, Ungaretti esprimerà il disagio esistenziale, il senso di smarrimento e sradicamento vissuto sulla propria pelle in seguito alla partenza per il fronte franco-tedesco a cui era stato obbligato negli ultimi mesi del primo conflitto mondiale. Ungaretti si sente uno straniero ovunque, un nomade incapace di trovare un luogo dove “accasarsi”.
La professoressa Antonella Rinella ha poi esplorato le caratteristiche di un’altra possibile modalità narrativa della migrazione: quella fumettistica. Rinella ha introdotto per prima cosa le caratteristiche del fumetto e le quattro “tribù” dei fumettisti: i «classicisti», considerati la “spina dorsale” del fumetto; gli «animisti», i più popolari; i «formalisti», i portatori di nuove idee; gli «iconoclasti», i produttori dei contenuti di maggiore profondità (la “coscienza,” per così dire, del fumetto).
Le “tribù” dei fumettisti
Esplorare le forme, i contenuti, i tempi e i modi della realtà migratoria attraverso il linguaggio dei colori e delle forme del fumetto non solo è possibile ma è anche estremamente efficace: sia che si tratti di esprimere una profonda inquietudine nella descrizione di un «futuro distopico», come fanno Sergio Nazzaro e Luca Ferrara nel loro “Mediterraneo” (che, da culla delle culture diviene luogo di una profondità arida, con grandi chiazze di corpi, fantasmi che si aggirano, navi sospese su fili che collegano pezzi di terra); sia che si tratti di narrazioni-reportage come quella di Paolo Castaldi, intitolata “Etenesh, l’odissea di una migrante”, che racconta la storia di una giovane etiope sbarcata sulle coste di Lampedusa quasi due anni dopo essere partita da Addis Abeba, portando con sé i segni e il ricordo di un viaggio disperato, intrapreso nella speranza di un futuro migliore in Europa.
Copertina di “Etenesh” (2011), fumetto-reportage di Paolo Castaldi
Le migrazioni sono al centro dell’agenda politica in Europa e nel Mediterraneo così come nel resto del mondo, eppure spesso sembra mancare la capacità di dialogare con i migranti, veri protagonisti di questa storia. Attraverso le narrazioni si può dar loro voce e instaurare un dialogo fra culture. Si può mettere in atto un’operazione di scoperta reciproca; il migrante alla ricerca di un nuovo «habitus», di una nuova terra, si fa veicolo di cultura, portatore del linguaggio, delle abitudini e degli interessi della propria collettività di appartenenza. Osservare da vicino manifestazioni culturali diverse ci permette di avviare un processo di rinegoziazione delle certezze che abbiamo su noi stessi. Il commerciante ed esploratore tedesco Pieter de Marees, vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, ci offre un’interessante testimonianza delle pratiche culturali da lui osservate nella regione della “Gold Coast” dell’Africa Occidentale (che oggi coinciderebbe con lo stato del Ghana), nei primi anni del 1600. La professoressa Daniela Castaldo, presidente del corso di studi DAMS dell’Università del Salento, nel suo intervento ha mostrato alcune immagini provenienti dalla ricerca dell’esploratore europeo: altri popoli, altre musiche e altre idee della musica incarnate dagli abitanti di quelle terre, suonatori senza note di melodie testimoni delle geografie sonore di un’umanità che da sempre si auto-racconta nelle modalità più disparate. Strumenti musicali si confondono con gli attrezzi da caccia, scene di celebrazione collettiva sono accompagnate da danze.
Illustrazioni del viaggio di Pieter de Marees nella “Gold Coast”
De Marees si ritrovava in un territorio straniero, faccia a faccia con manifestazioni culturali del tutto nuove di cui tentare di comprendere e interpretare i significati. Se ci pensiamo, non molto diversamente dal migrante che oggi parte dall’Africa e approda sulle coste Europee. Dunque, chi è l’osservante e chi l’osservato?
A fronte di un contesto sociale variegato, in perpetuo divenire, le città si trasformano, mutano forma e aspetto. L’attenzione nei confronti dei migranti, tuttavia, è troppo spesso confinata all’interno della cronaca nera o della narrazione drammatico-emergenziale, che fa sì che si reiteri quell’immagine dell’“altro” come invasore, come minaccia. Progetti come “Filmare l’alterità” nascono dal tentativo di contrastare la tendenza di stigmatizzazione della diversità e proporre delle immagini alternative dello straniero come parte integrante del contesto socio-culturale. A illustrare le caratteristiche del progetto la dottoressa Layla Dari: il Dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze propone la prima edizione del concorso e archiviazione di immagini migranti nel paesaggio urbano fiorentino per ricostruire una poliscopia/polifonia urbana, ridefinendo e relativizzando i modi di intendere la città e l’essere cittadini. Tra gli obiettivi che “Filmare l’alterità” si pone vi è proprio la volontà di mettere in discussione la rappresentazione dominante dei migranti nei media tradizionali, al fine di stimolare l’accesso personale e volontario a un database di opere audiovisive realizzate come atto conoscitivo reciproco. Dari ha mostrato alcuni esempi di prodotti audiovisivi amatoriali della durata di 3-5 minuti realizzati per il concorso, nonché immagini dei partecipanti e della premiazione.
Il professor Maurizio Memoli ha in seguito introdotto la visione di “B_CITY”, un documentario realizzato all’interno del progetto “Filmare l’alterità”, che racconta delle eterotopie e eterocronie di uno spazio pubblico e dei suoi margini. Realizzato durante un workshop intensivo a ottobre 2018, si serve dell’approccio dell’“Instant Geotelling Film” (IGF), basato su immersione etnografica e disorientamento (dove chi osserva – per il solo atto di tenere una videocamera – è coinvolto nella realtà socio-spaziale, agisce su di essa e la perturba) ed è composto da quattro cortometraggi che nascono dall’articolazione di modi differenti di interagire con lo spazio. In uno dei corti seguiamo la telecamera mentre penetra l’intimità dei vissuti quotidiani di alcuni homeless, con lo scopo di esplorare le “geografie abitate” di coloro che “non abitano”; l’obiettivo è puntato oltre le barricate di cartone erette a ogni tramonto da un gruppo di immigrati senza fissa dimora e abbattute dai netturbini a ogni alba: una giovane dottoranda di nome Chiara cede la propria telecamera a uno dei senzatetto, per far sì che sia lui a filmare e permetterci così di osservare la sua realtà attraverso i suoi occhi. «L’Instant Geotelling Film come metodo e come pratica di racconto-incontro permette di incarnare una narrazione “altra” di azioni e rappresentazioni legate allo spazio dal medium della pratica sociale. Lo spazio della città si dis-piega intorno a sguardi e corpi che sfiorano quinte teatrali che, a loro volta, svelano scene, generano significati, formulano ipotesi» [Ivan Blečić, Maurizio Memoli, Elisabetta Rosa].
È importante prendere in considerazione il fenomeno della migrazione nella sua interezza, nella molteplicità delle sue cause e comprendere che da sempre la modalità nomadica dell’uomo di abitare la terra l’ha spinto oltre qualsiasi confine. Ogni giorno incontriamo il diverso e ogni giorno con esso ci confrontiamo: per effetto di questo confronto ci evolviamo. La ricchezza dell’incontro va riconosciuta, valorizzata e promossa: lo dimostra, per esempio, l’inaspettata, meravigliosa poeticità dell’incontro di due realtà all’apparenza molto lontane tra loro: quella di due bambini africani appena sbarcati sulle coste pugliesi con quella di uno strano personaggio vestito da Babbo Natale. Alessandro Valenti racconta di questo incontro nel primo cortometraggio proiettato a conclusione dell’evento. Assieme a Valenti, anche Vincenzo D’Arpe, Emiliano Carico, Mattia Epifani e Davide Barletti narrano “Il Salento dell’Altro”. Nel suo “Ius Maris”, Vincenzo D’Arpe parla del giovane Yassine che, nato e cresciuto a Lecce da genitori marocchini, vive a cavallo tra due culture, senza il conforto di una reale integrazione; la sua passione per il surf lo porterà a un incontro che muterà il corso della sua vita. In entrambi i casi ci ritroviamo a riflettere sulla potenza dell’atto della condivisione.
Questi autori, al termine dell’incontro, hanno lasciato il pubblico con una riflessione sulla dimensione di alterità che tendenzialmente collochiamo al di fuori della nostra comunità ma di cui tuttavia anche noi facciamo parte: anche noi siamo “altri” per qualcuno. Sarebbe giusto dunque affermare che non esistono “osservanti” e “osservati” ben definiti, che il concetto dell’osservazione è da relativizzare e che, più semplicemente, è questione di punti di vista. Per fare un esempio, i movimenti epocali che hanno attualmente corso nel Mediterraneo acquisiscono un significato radicalmente diverso se osservati da una prospettiva europea o da una prospettiva africana. Il fenomeno della migrazione accompagna la storia umana nella sua universalità. Alla geografia è riconosciuto il dovere di fornire visioni che sappiano guidare i territori verso un momento di incontro tra culture, verso l’apertura e la condivisione, il superamento del confine per annientare il sentimento di diffidenza e di paura nei confronti dello sconosciuto, del diverso, e promuovere la scoperta reciproca.