Stammlager XVII A
Lo Stalag XVII A era dislocato a Kaisersteinbruch (Austria). Venne aperto nell’ottobre 1939 e liberato il 2.5.1945. Era un complesso di grandi dimensioni. I prigionieri di varia nazionalità erano generalmente separati l’uno dall’altro da filo spinato. Nello Stalag stazionarono stabilmente circa 30.000 prigionieri, era anche un campo di transito per campi di lavoro o per contribuire ad ampliare il personale mancante per l’aumento della produzione nelle fabbriche, aziende agricole, manutenzione di strade e ferrovie.
Nel gennaio 1940 vennero internati più di 1.000 prigionieri di guerra polacchi; in successione ne arrivarono dall’invasione del Belgio circa 3.900 e dalla Francia oltre 70.000, di cui un migliaio di ufficiali e più di 200 civili. Nel giugno del 1941 i Serbi furono il secondo gruppo più numeroso, nel mese di dicembre 1941 furono chiusi oltre 40.000 militi dell’Armata Rossa mentre dopo il settembre del 1943 pervennero gli Italiani. Non mancarono gruppi di prigionieri provenienti dalla Croazia, dalla Grecia, dalla Romania, dalla Bulgaria e dalla Ungheria.
La prima relazione di verifica avvenuta nell’estate del 1940, tramite una Commissione del C.I.C.R., descrisse la necessità dell’aumento della porzione giornaliera di pane. La cucina stessa, che era sotto il comando di un sottufficiale tedesco, era pulita e ben arredata. L’abbigliamento era insufficiente, soprattutto la divisa dei Belgi era costituita di un materiale non consono e venne rimosso rapidamente soprattutto per i prigionieri lavoratori. Le lamentele di questi erano generalmente l’insufficienza di biancheria intima, in particolare le scarpe, ma anche abbigliamento in genere. Il tasso di mortalità tra i prigionieri era molto basso, raggiunse nell’estate del 1940 il numero di 55 morti, le condizioni igieniche vennero descritte soddisfacenti. La lamentele base fu la reception postale che era molto scarsa, soprattutto dalla Francia occupata. Molta corrispondenza inviata da casa per via Ginevra era smistata dopo due, a volte, anche, tre mesi. I problemi nascevano soprattutto negli uffici della censura dello Stalag, molte volte da lettere molto lunghe e spesso difficili da leggere.
Le visite dei delegati allo Stalag XVII A furono effettuate il 20 agosto 1940, il 19 marzo 1941, il 28 marzo e il 10 novembre 1942, il 30 aprile 1943, il 10 gennaio 1944 e l’8 agosto 1944. Inoltre lo Stalag venne visitato da una Commissione di rappresentanti del Governo svizzero, ma i dati della visita non furono resi. Le relazioni furono trasmesse al Ministero degli Esteri di Berlino.
Secondo l’ideologia nazista, i Russi e gli Slavi erano persone da considerare come rassisch minderwetig “razza inferiore”.
Nello Stalag regnava una gerarchia interna; il criterio unico era basato sul tipo di trattamento, il più basso era il gruppo dei prigionieri russi. Subito dopo il loro arrivo scoppiò la febbre tifoide: il tifo e la dissenteria. I Russi arrivarono allo Stalag nel novembre 1941; dopo l’epidemie si sospese il loro arrivo fino all’aprile del 1942; i rimanenti vivi furono evacuati e trasferiti con carri bestiame al Frontstalag. All’arrivo della stazione di Wilfleinsdorf, la maggior parte di loro era morta durante il viaggio e venne sepolta nel cimitero dello Stalag in fosse comuni. Pastor Franz, rettore della parrocchia di Kaisersteinbruch, riferì di aver visto con i propri occhi che otto russi morti furono scaraventati su un carrello, avvolti da materiale cartaceo e sepolti senza alcuna cerimonia religiosa.
Testimonianza di Lishin Nestos
Ero lavoratore forzato Floridsdorfer Lokomotivfabrik, soffrivo la fame ed ero malato La mia fine era inevitabile; provai a scappare senza riuscirci e fui portato al comando di stermino n° 44 a Kaisersteinbruch. Non dimenticherò mai le esecuzioni di prigionieri di guerra che venivano ripresi dopo un fuga, vivi venivano dilaniati dai cani. Morto per morire fu un miracolo la mia uscita da questa prigione di morte. I cani utilizzati non riuscivano a trovare il mio percorso. Sfinito nella notte caddi su una roccia nella zona di Oberpullendorf. Quando ripresi coscienza mi trovai in ospedale gestito dal CICR. Mi dissero che un poliziotto simpatico mi aveva portato lì. In seguito mi trasferirono presso una organizzazione di prigionieri del’Interstalag XVII A. A Bruck an der Leitha, nell’infermeria del dipartimento francese, evitai tutte le torture e i tormenti. I miei amici francesi prepararono per me una quarta fuga che riuscì. Dopo mille difficoltà e pericoli incontrai le truppe sovietiche, mi unii a loro e tornai nella mia Patria sovietica.
Il 27 ottobre 1941 giunse allo Stalag XVII A una ordinanza dal Ministero degli Interni Tedesco per la sepoltura dei cadaveri dei prigionieri sovietici: per il trasferimento e per la sepoltura, la bara non era necessaria. Il corpo doveva essere avvolto da una carta catramata oppure racchiuso con materiale adatto. La sepoltura individuale era irrilevante; essa doveva avvenire con diversi cadaveri per essere sepolti in fossa comune con i corpi uno accanto all’altro e alla solita profondità delle tombe locali. Una lettera del Comando delle Forze Armate del 24 marzo 1942 aggiunse: una delegazione militare tedesca non è prevista e la presenza dei compagni dei defunti è permessa solo se essi appartengono allo stesso gruppo e sepolti separatamente dalle tombe di prigionieri di etnie diverse. Il dirigente espresse preoccupazioni per la fornitura di schede da fissare sui cadaveri e per il carico e scarico, scrisse: pubblico casuale che non sanno che si tratta di prigionieri di guerra sovietici, potrebbero impostare le ipotesi più improbabili molteplici tipi di voci.
Dal momento che le morti nel mese di giugno e luglio 1942, in particolare nel campo di WienerNeudorf, si raggiunse un livello fino ad allora sconosciuto, dovevano trovare una nuova e definitiva soluzione al problema dei trasporti.
Il 1° agosto 1942, si ebbe presso la Direzione Funeraria comunale a Wien 4, Goldeggasse 19, un incontro, che si tenne in occasione della nomina del nuovo comandante dello Stalag XVII A e Stalag XVII B, partecipò anche il comandante dei prigionieri di guerra dello XVII Distretto; in quell’incontro venne deciso che a partire dal 17 agosto 1942, l’amministrazione del presidio dell’esercito di Wien doveva utilizzare carri coperti per non far notare il loro contenuto e attrezzati in modo che i cadaveri venivano inoltrati nella fossa inclinando i carri.
Dopo l’8 settembre 1943, verso la fine del mese arrivarono i primi convogli di Italiani, fino a dicembre furono oltre circa 45.000.
Dipinto di A. Williot
L’immagine, tratta da un sito francese, si riferisce al campo di internamento dello Stallag XVII A. Il campo ospitava prevalentemente prigionieri francesi, inglesi e italiani, tra questi per un limitato periodo anche il pittore fidentino Ettore Ponzi. Nel suo diario questo lager venne ricordato come quello in cui “feci amicizia con alcuni pittori di altri paesi e potei disegnare e acquerellare molti ritratti, specialmente di francesi che si mettevano in fila e aspettavano il loro turno”.
Aquerello di E. Hemmerlè
Questa seconda immagine, di altro pittore francese, si riferisce allo stesso campo. Immancabile la presenza ossessiva delle torrette di guardia. Uno sparo da queste torrette significava una vittima e una licenza premio allo sparatore. Nell’acquerello questa eventualità può sembrare remota, ma questo può essere dovuto al desiderio della normalità che ci portiamo dentro anche in situazioni disperate.
Ladislav Ťažký, Presidente onorario della slovacca Writers Association, a Bratislava, nel 1990 visitò l’ex campo di prigionia, venne internano nel 1944, Ťažký descrisse il variegato destino di molti soldati slovacchi dimenticati dagli alleati.
Il treno si fermò di nuovo, si sentì un urlo, dove siamo? a Bruck an der Leitha rispose un’altro: C’era una lavagna “Lies Kaisersteinbruch – Stammlager XVII A”. Veniva ascoltato solo un misterioso rumore di auto. Scendemmo dai vagoni, ci misero in file di cinque. Il primo gruppo lasciò Bruck e girò a sinistra. Un cospicuo numero di soldati tedeschi con i fucili spianati, osservavano prigionieri connazionali mentre caricavano morti e feriti su due auto. Ci avviammo dietro alle due auto che facevano da apripista con i fari accesi mentre ai lati i tedeschi, armati e con i cani mantenevano l’ordine della marcia. Davanti a noi si intravedeva una vasta area illuminata, pensavamo a una città, e ci chiedevamo perché i Tedeschi non avessero paura delle incursioni aeree? Per quanto tempo andremo avanti! Un’ora? O ancora di più? Le luci indiscrete erano già molto vicine. Si intravedevano case, vicoli e torri con grandi luci che si muovevano in semicerchio e ad intervalli regolari. Che strane torri. Campanili non assomigliavano. I tetti delle case erano neri, basse ma ampie e particolarmente lunghe. Assomigliavano a caserme circondate da un alto filo spinato. Attraversammo un cancello alto e leggemmo il nome della città: Stalag XVII A. Era una città di magazzini ben squadrati, a gruppi venivano separati da grandi viali illuminati e ingegnosamente organizzati, una fabbrica per la produzione di massa dei prigionieri e di corpi. Alla finestra, come in un ufficio, scrivevano il nome dei soldati. Nessuno poteva verificare se erano giusti o sbagliati. Si iniziava a morire del proprio nome. Dietro di noi, a rotazione, un gruppo di prigionieri sovietici erano sotto le docce con la testa rasata.
Una vita annegata in piedi in un mare di tempo. Queste sono le lunghe distanze di una vita breve. Ogni mattina la stessa domanda: cosa accadrà domani, cosa viene dopo? Perché non lavoriamo? Ci torturavano per niente! Perché i Tedeschi torturavano disumanamente per non far niente? e altri con il lavoro sovrumano? Questi erano magazzini giganti senza lavoro e di tanti morti.
La situazione dei prigionieri di guerra slovacchi venne descritta da Kudela da Pressburg in una lettera che scrisse nel 1991. Sono lieto che durante la mia visita al Museo sono stati visti le foto ricordo. Ho potuto vedere quello che sperimentai come prigioniero di guerra nel campo di concentramento in sé.
Nello Stalag fui portato da soldati tedeschi il 2 gennaio 1945 per aver rifiutato di par parte delle truppe slovacca difesa dell’avanzamento dei Russi dopo la soppressione la rivolta nazionale slovacca. Kudela venne sospettato di essere un dissidente e di aver partecipato alla rivolta. Fino al suo arresto, da ottobre a dicembre 1944 partecipò a diverse azioni di sabotaggio coi partigiani. I nazisti lo catturarono e lo mandarono a Trmava, dopo interminabili interrogatori venne trasportato con altri compagni in un carro bestiame a In Bruck an der Leitha, marciando a piedi dalla stazione allo Stalag XVII A. All’arrivo furono sottoposti alla conta e inviati nelle baracche. Iniziò così il periodo più difficile della mia vita. Molto spesso sembrava di non aver speranza di vivere ma non abbandonammo mai la speranza di tornare a casa.
La baracca non era mai riscaldata, per la pulizia fisica c’era solo acqua fredda, dominava un vuoto, i pidocchi contaminavano i letti a tre livelli. Era impossibile sconfiggere quegli animali fastidiosi, resero la vita quasi insopportabile.
C’erano Russi, Romeni, Jugoslavi, Italiani e tutti coloro che avevano combattuto contro i Tedeschi, Francesi, Inglesi e Americani. Lavorai con i Russi e Romeni in zone delimitate. Iniziavamo la mattina presto, eravamo quasi morti di fame.
Veniva distribuito solo 3 dl di the senza zucchero fatto da erbe sconosciute, fino a mezzogiorno. A pranzo, dieci uomini condividevano 1 kg di pane e 1/4 di kg di margarina. Questo era tutto fino a tardi serata, tornavamo allo Stalag nel buio più totale, all’ingresso ciascuno di noi riceveva nella sua pentola di latta un mestolo di zuppa di crusca con barbabietole. Questo è quello che succedeva a noi ogni giorno. Il poco cibo che nemmeno a un cane era sufficiente.
Le lamentele arrivarono in coro, fummo battuti dai Tedeschi con bastoni e calci. Avevamo un’espressione come maiali e cani affamati. Il nostro vantaggio era che la nostra permanenza fu breve. Molti prigionieri di altre nazionalità morirono quotidianamente, soprattutto romeni e russi. Loro erano allo Stalag dal 1941, ricordo come i prigionieri, scortati e minacciati dai soldati Tedeschi, trasportavano i cadaveri ancora nudi. A quel tempo non sapevamo dove, ma ora sì. Tutti sono stati portati alla nuova spaziosa dimora, un Cimitero che si trova vicino Kaisersteinbruch.
Dopo la liberazione, decine di migliaia di prigionieri di nazionalità diverse si prepararono per il loro viaggio verso il tanto atteso ritorno a casa. Uno di quei giorni venne celebrata una Messa di ringraziamento in una chiesetta accanto al cimitero con gravi croci (Cimitero di guerra contenente le tombe di oltre 10.000 prigionieri di guerra. La maggior parte delle vittime erano Sovietici). Era una giornata con il cielo di color blu profondo, la chiesa era affollata, una gran folla all’esterno, molti si sedettero sui muri perimetrali del cimitero, tutti a lodare il Signore con tutto il cuore. La concordia unita di nazioni diverse. In cinque lingue venne letto il Vangelo, altri, anche se non capivano la lingua furono tutti miscelati formando una unità senza comando. Trionfò la fede, tutti uniti senza sopraffare l’individuo, senza ignorare o disprezzarne uno. Poi cantarono gli Italiani, poi i Polacchi, poi i Francesi, tutti ascoltavano senza fiatare, all’insegna delle proprie canzoni di fede con devozione. Ai bordi e nell’immenso gruppo di ascoltatori c’erano i Greci, i Bulgari, i Rumeni, i Belgi, i Cechi, gli Inglesi, gli Americani, molti di loro non erano cattolici, tutti insieme e in silenzio formarono una sola nazione. Una enorme festa di unità, tutti felici e tutti dimostrarono che solo sui fondamenti della fede può emergere un mondo nuovo e migliore.