I.M.I. Internati Militari Italiani

INTERNATO MILITARE MARIO VIGNALI – Vitoronzo Pastore

 Racconto manoscritto – Parma, 12 luglio 1945 di un prigioniero di ritorno da “Mauthausen” – del marinaio Mario VIGNALI matricola prigioniero 115772 

Il giorno 12 settembre 1943, dopo aver lasciato La Spezia, raggiunsi Cevola di Felino (Parma) presso la mia famiglia. Mi censii presso il Comune di Cevola per ottenere tessere annonarie vivendo in famiglia, nascosto, senza rispondere ad alcun invito dell’ex regime.

Il giorno 14 agosto 1944 mi sono arruolato nelle file partigiane, nella Brigata Giustizia e Libertà, Distaccamento Pennino, prendendo a varie azioni. Fui arrestato dalle SS. Tedesche il giorno 11 ottobre, nella zona di S. Michelino dei Gatti in provincia di Parma, durante una missione. La causa della mia cattura fu prodotta dalla slogatura di una caviglia e dall’inceppamento del mio Sten. Subito disarmato, fui condotto a piedi e a forza di calci in Felino ove fui sottoposto ad uno stringente interrogatorio. Da qui per mezzo di un camion, scortato da dodici tedeschi, fui inviato a Langhirano e messo in una cella priva di finestre e nella quale scorreva acqua di sozzura. Dopo circa due ore, fui interrogato con minaccia, nel caso avessi mentito, di togliermi gli occhi. Sebbene conoscessi le loro atrocità e la loro mancanza di scrupoli nei riguardi dei partigiani, non fui intimorito, e con fede, seppi celare dati e fatti che potevano nuocere ai miei compagni d’armi.

Dopo sei giorni di continui interrogatori e di digiuno, legato come un volgare criminale, fui condotto nella piazza di Langhirano ove raggiunsi un compagno ed una lunga schiera di borghesi rastrellati. In queste triste condizioni ci avviammo a piedi verso Parma; durante il tragitto alcune persone cercarono di offrirci pane e da bere, ma i nostri aguzzini non permisero, togliendoci anche quel poco cibo che eravamo riusciti a nasconderci nelle tasche. Giunti a Parma ci avvicinarono all’Ospedale Vecchio, dove avevamo sostato sotto la pioggia, e all’S.D. e qui iniziò per alcuni di noi il calvario. In cima alle scale da cui si scendeva ai famosi sotterranei, fummo salutati da una scarica di pugni e pedate. Attesi alcuni giorni in una cella, solo, il mio destino. Finalmente dopo sei giorni, fui rifocillato da una mezza tazza di brodo ed in seguito mi presero le scarpe e così mi lasciarono per un mese.

Dopo questo, avendomi interrogato serratamente senza ottenere da me alcuna dichiarazione, ebbero inizio le torture. Legatomi le mani mi introdussero fra gambe e braccia un bastone, poi preso a calci in faccia, mi gettarono a terra, legandomi uno straccio in testa e facendo molte domande, presero a colpirmi a testate, di cui portai traccia per più di quattro mesi. E così fu per alcuni giorni; dopo quasi un mese, durante il quale rimasi con le mani legate, sciolte solo durante i dieci minuti del pasto, e maltrattato dai carcerieri che mi pestavano i piedi a sangue ogni qualvolta aprivano la cella, e malmenato dai Briganti Neri, i quali, in cambio di una delazione, mi promettevano ricompense e soprattutto mi offrivano di sfogare la mia fame, vera tortura di Tantalo, a un tavolo riccamente imbandito, posto sotto i miei occhi: poi passai a S. Francesco, dove rimasi quasi un mese insieme ad alcuni compagni. Da qui partimmo, su un autocarro, verso metà dicembre, sempre a mani legate, per ignota destinazione. La prima tappa fu Bolzano dove fummo tosati e rimessi in carcere; io ed alcuni miei compagni fummo inquadrati fra i “pericolosi”. Dove era riservato uno speciale trattamento a base di bastonate. L’8 gennaio ci rinchiusero in carri bestiame e inviati a Mauthausen, dove arrivammo dopo quattro giorni stremati dal viaggio infame, senza cibo e senza sonno per il poco spazio che era a nostra disposizione.

Alla stazione erano già pronti ad attenderci i tedeschi che ci portarono al Campo di concentramento sotto la neve con il solito accompagnamento di pedate e colpi di scudiscio. Al campo, denudati, ci portarono al bagno, dopo averci tosati ancora, lasciandoci però per sfregio una striscia di capelli in mezzo alla testa. Rimanemmo tre giorni soltanto in mutandine e camicia, che erano appartenuti ad altri disgraziati. Ci diedero poi, calzoni laceri che non bastavano a ripararci dal freddo intenso. Rimanemmo 12 giorni al blocco 24 (capannone di legno contenente circa 500 persone). Qui ci sfamarono con un brodo di acqua e rape bollite (questo fu poi il vitto di tutto il periodo della mia prigionia). Fui poi portato al terzo lager (blocco 27), ove quotidianamente alle cinque mattutine ci facevano la sveglia e ci avviavano alle marce sulla neve: qui per mezz’ora eravamo costretti a stare con il ventre a terra, mentre per il resto della giornata si doveva marciare e far ginnastica sotto i colpi di scudiscio al minimo movimento falso. Quanto poi al dormire, si giaceva su di una massicciata, disposti di fianco, o per meglio dire incastrati uno vicino all’altro dagli aguzzini stessi.

Ai primi di marzo fui portato con altri a S. Aglost (a circa 200 km da Mauthausen) ai lavori con panni laceri e sotto qualsiasi intemperie, ci fecero spostare tronchi, pali di ferro, costruire baracche e scavare gallerie. In compenso di tale lavoro avevamo il ricco vitto di una pagnotta ogni dieci individui. Chi non resistette a questo tenore di vita, veniva picchiato a sangue, per cui gran numero di compagni morirono per gli stenti o per il freddo o per le torture. A volte si riusciva a comunicare con qualche borghese, sempre però a rischio della fucilazione, e se qualcheduno di noi si accorgeva di essere allo stremo delle sue forze e lo dava a vedere, anche lì appariva lo  spettro della morte, perché i carcerieri non appena vedevano uno vicino alla fine, lo gettavano nella catasta dei morti, già quasi in decomposizione, destinati ad essere bruciati nel forno crematoio. In aprile, avvicinandosi gli eserciti alleati liberatori, fummo avviati a piedi verso Mauthausen, nutriti con una sola pagnotta da divedersi con 10 compagni durante il viaggio di 5 giorni; e guai a chi fosse venuto meno o caduto durante la marcia: era la fine sicura per mano dei carnefici. Unica possibilità di nutrirsi erano le foglie degli alberi. Il Campo era un panorama di pallidi esseri denutriti, simili a fantasmi. E a questi esseri erano imposti lavori gravosi e, come ciò non bastava, esercizi ginnici. Questo il motivo per cui alla fine della giornata, erano sempre dai 10 ai 15 coloro che non rispondevano e non avrebbero più risposto all’appello. E il forno crematorio non aveva riposo. I nomi delle vittime designate (un numero stabilito di prigionieri “doveva” scomparire ogni giorno), erano consegnati giornalmente ai carcerieri, e noi ormai rassegnati alla fine attendevamo il compiersi del nostro destino.

Io potei sapere dalle labbra stesse di colui che avrebbe dovuto essere il mio carnefice che due giorni soli mi separavano ormai dalla fine. Ma non era destino evidentemente che anch’io soccombessi alla ferocia dei tedeschi, e prima dello scoccare dell’ora, in un’estasi di liberazione, potevamo accogliere gli eserciti alleati i quali si portarono da noi già condannati a vita. Potemmo avere tutte le cure che la civiltà ci ha concesso, assistenza fraterna, sollievo morale, e potemmo vedere con i nostri occhi tutti gli orrori commessi da coloro che ci tenevano imprigionati.Nelle celle segrete giacevano mucchi di cadaveri le cui occhiaie vuote, le cui carni martoriate ci parlavano delle torture e della inciviltà che avrebbero dovuto dominare il mondo, corpi di compagni perduti, profanati anche nella morte. Visioni di un incubo da cui a poco a poco ci si va risvegliando, mentre si riprende contatto con la vita divina che credevamo perduta.

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